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Silenzi colmi di speranza

È un mercoledì come tanti altri ed io mi appresto a salire in macchina per andare a svolgere il servizio di volontariato in Terapia Intensiva.

Le prime gocce bagnano il parabrezza della vettura durante il viaggio; ma dopo che ho parcheggiato, mentre percorro i pochi metri che mi separano dall’ospedale, il cielo rovescia su di me tanta acqua da costringermi a ripararmi con la borsa dove tengo il camice ed altre mie cose personali.

Arrivato alla sala “filtro”, dove i parenti si preparano per l’ingresso in Terapia Intensiva vestendo camice, cuffia, sovrascarpe e mascherina, riparo al meglio i guai che la pioggia aveva provocato ai vestiti; e comincio a parlare con medici e infermieri prendendo nota dei malati e dei loro eventuali spostamenti.

Durante l’attesa, alcuni famigliari si raccontano i loro guai, certi con preoccupazione, altri sereni e fiduciosi.

Un nutrito gruppo di persone attira la mia attenzione: la signora corpulenta che ho davanti a me, penso, può essere la mamma della malata, una giovane ragazza, mi renderò conto poi, ricoverata in Terapia Intensiva Generale-TIG.

Chiaramente addolorata e preoccupata piange sistemando una gonna sgualcita e macchiata e un golfino con i bottoni allacciati asimmetricamente che danno l’impressione di un corpo piegato su un lato.

Un signore di circa 55 anni ha un’aria cupa e severa; verrò poi a sapere che è il padre della paziente. Parla con toni duri e voce rauca; ogni volta che cerca un colloquio con la moglie ha un’aria di accusa ed in risposta la moglie non risponde e aumenta il suo pianto che diventa convulso tanto da suggerirmi di avvicinarmi e chiedere se posso fare qualcosa per aiutarla o se devo chiamare un medico per tranquillizzarla.

A questo punto, mi rendo conto che questa infelice mamma pensa di trovare in me un appiglio, un interlocutore capace di capirla e di aiutarla. Lo capisco perché mi racconta della figlia ricoverata che cercava un po’ di libertà dalla severità del padre e dai modi violenti di manifestarla; di problemi economici e della difficoltà di fare quadrare il bilancio familiare; e, infine, del disperato gesto della figlia che ha cercato di risolvere i problemi con il suicidio…

Non posso che ascoltare e mi inserisco nei suoi racconti con poche semplici parole di conforto, stando ben attento a non dare giudizi e a non interferire nella sua vita famigliare. Alla fine del racconto, non so per quale ragione, ma penso per lo stress e la disperazione, questa mamma addolorata si spinge verso di me piangendo e si appoggia abbracciandomi.

Io sono quasi terrorizzato dalle parole che escono dalla sua bocca in quel momento: «Venga dentro con me e parli lei a mia figlia!» Perché terrorizzato? Non mi sento in grado di aiutarla, non so cosa fare né cosa dire – penso- e io potrei solo combinare guai.

La forte insistenza della mamma e la grande voglia di fare qualcosa mi fanno promettere che entrerò con lei in terapia intensiva. Me la sono sempre cavata nei momenti di difficoltà e anche questa volta, cerco di farmi coraggio. Nell’ora stabilita entriamo insieme dalla paziente che, malgrado il gesto folle, sta bene. È cosciente, ha piccole ferite fisiche ed è sorridente. La fortuna l’ha evidentemente aiutata! 

In un attimo decido cosa fare: prendo la mano della ragazza che mi sorride e con un po’ di commozione la guardo negli occhi. Non mi sento di dire neppure una parola. Per qualche minuto ci guardiamo negli occhi in assoluto silenzio. Niente di più, fino al momento di uscire.

Quando siamo fuori dalla Terapia Intensiva, la mamma continua a ringraziarmi per quello che ho fatto.

Anche se a me, sembra di non aver fatto nulla. 

A cura di Michele Di Modugno, volontario dal 2007